ROMA – C’era una volta, tanto tempo fa, un bellissimo e fatato luogo dove un venticello poteva diventare un ciclone. Quel luogo era il nostro pianeta, esattamente quarant’anni fa. Live Aid iniziò come una folata di vento partita alcuni mesi prima in Inghilterra, quando un rocchettaro di seconda, o addirittura terza fila, di nome Bob Geldof, vedendo un documentario sulla fame in Africa pensò che forse, chissà, la musica poteva fare qualcosa e cominciò a telefonare a destra e a manca scoprendo che sì, si poteva fare qualcosa.
Lo pensavano in tanti, nacque Do they know it’s Christmas?, un singolo cantato dalla crema della crema della musica inglese: Bono, Sting, George Michael, Boy George, tutti a suggerire al mondo una domanda: ma lo sanno che è Natale? “Feed the world”, “nutri il mondo” cantavano, e da lì iniziò tutto. Il venticello diventò un uragano, pochi mesi dopo arrivò la risposta americana, We are the world, con una parata mai vista di star, da Bob Dylan a Michael Jackson con tutto quello che c’era in mezzo e poi, come se a quel punto fosse naturale, si arrivò al concerto.
Era il 13 luglio del 1985 e sulle due sponde dell’Atlantico si addensò una quantità di musicisti fino ad allora impensabile: da una parte lo stadio di Wembley che diede il via alle danze alle 12, dall’altra quello di Filadelfia dove si iniziò dopo le 20, ora di Greenwich. Sembrava una favola: la migliore musica del mondo offrì una impagabile dimostrazione di forza. Si poteva sognare, fare, agire e tutto il mondo, in diretta, vide di cosa era capace la musica. Con alcuni momenti passati alla storia, come la performance che in venti minuti trasformò gli U2 nella più potente rock band del mondo; o quella dei Queen, ripresa come finale dell’acclamatissimo film Bohemian rhapsody. E poi Bowie, i Beach Boys, Santana, Madonna, citando a caso tra gli artisti che si misero in fila per dare un contributo. Fino al finale della parte inglese con Paul McCartney e quello della parte americana con un duetto leggendario tra Mick Jagger e Tina Turner, poi il trio disfatto e sgangherato composto da Bob Dylan, Keith Richards e Ron Wood.
Una festa di partecipazione e condivisione planetaria coronata dalla prodezza di Phil Collins che si esibì a Londra alle 15 e 20 con Sting e Branford Marsalis, poi prese un Concorde per arrivare allo stadio di Filadelfia in tempo per esibirsi con Eric Clapton alle 19 e 38 e con i Led Zeppelin riunitisi per l’occasione. Un ottovolante di emozioni, sorprese, che seguimmo col fiato sospeso, nulla era scritto né scontato. Stavamo assistendo in diretta al più grande live della storia, l’apice di quello che poteva offrire la cultura rock come modello di sensibilità, impegno, consapevolezza. Una delle poche volte in cui la musica dimostrò che certe battaglie potevano non solo essere combattute, ma anche vinte. C’era una volta, in un luogo che oggi sembrerebbe immaginario, e invece era reale, vero, perfino possibile.
Fonte: laRepubblica